La testimonianza di Lidja, badante ucraina che lavora a Sassari.
“Ho molta paura. La mia famiglia è ancora lì, a Kiev”. Così Lidja, ucraina trapiantata a Sassari per lavoro dal 2003, descrive il suo stato d’animo a una settimana dall’inizio del conflitto con la Russia. Sono le due figlie a raccontarle ogni giorno su whatsapp quel che accade nella capitale. “Vivono in due quartieri diversi. Per spostarsi da uno all’altro ci vogliono quaranta minuti”. E questo è il minimo rispetto a una quotidianità fatta di missili e morti. “Manca la corrente elettrica e l’acqua. I miei nipoti vivono negli scantinati perché uscire è troppo pericoloso”.
All’interno delle cantine ci si è organizzati con il cibo in previsione di un lungo, forse sanguinario inverno mentre le esplosioni ormai non risparmiano i civili colpiti all’interno dei propri palazzi. I vetri delle finestre sono saltati. Li hanno coperti con la plastica”. All’orizzonte, sempre più vicine, le truppe russe. “Puntano verso il governo. Vogliono conquistarci. Putin dice che siamo russi ma è falso. Bielorussia, Ucraina e Russia non sono sorelle!”
Lidja si ritrova ogni giorno per poco più di un’ora insieme alle sue connazionali, badanti come lei, in un bar del centro storico. È una finestra temporale nella quale sospendono l’impegno di assistenza a donne e uomini spesso non più autonomi. “Siamo grati alla Sardegna e all’Italia per l’aiuto che ci sta dando”. La speranza è pure che si realizzino corridoi umanitari per permettere l’arrivo dei parenti ucraini nella penisola anche se, proprio a Kiev, accerchiata dall’esercito sovietico, la fuga sta diventando sempre più difficile. Figlie e nipoti avrebbero dovuto arrivare a maggio per una vacanza programmata da tempo: un’eventualità che adesso si fa sempre più remota. “E’ colpa di Putin – fanno coro le altre donne – lui vuole rubarci tutto. Pure la nostra storia”.