L’allenatore di boxe Gavino Mura racconta la sua carriera di insegnante della nobile arte.
Gavino Mura e la boxe, oltre settant’anni di passione. Il maestro portotorrese della nobile arte ha appena superato il traguardo delle 74 primavere festeggiato dai ragazzi della palestra guidata dal boxeur Tore Erittu a Latte Dolce dove insegna da diverso tempo. Ma la vocazione all’addestramento pugilistico per Gavino è cominciato poco prima del terzo millennio. “Nel 1998 il comandante della polizia di Porto Torres Alberto Mura – racconta – mi ha chiesto di dargli una mano coi suoi allievi della ‘Mario Solinas’. Non mi sentivo in grado ma poi ho accettato prendendolo come un gioco”. Che diventa però serio quando si trova a gestire venti giovani “dai sette ai sedici anni” a cui da subito tramanda quelli che per lui sono i fondamenti della vita prima ancora che della boxe. “Sono i valori appresi dai miei genitori: educazione, rispetto e umiltà. Io ho aggiunto un altro comandamento: si è pugili sul ring, non per strada”.
E soprattutto, aggiunge, “in palestra siamo tutti uguali. Potevi essere cieco, zoppo, sovrappeso, per me non c’era differenza. E se qualcuno prendeva in giro un altro per i suoi difetti lo mandavo via”. La severità del maestro nasce dall’apprendistato con suo padre, che aveva combattuto entrambe le guerre mondiali e aveva vissuto nella miseria più nera trasmettendogli l’etica del lavoro. “Da ragazzo la mattina andavo a scuola e la sera l’aiutavo come muratore. A quel tempo si aveva il massimo rispetto per gli anziani”. Poi lui diventa tecnico dell’Enel nella centrale di Fiume Santo e, accanto al lavoro, coltiva l’amore per le sfide coi guantoni che trova prima uno sfogo con Alberto Mura e poi, alla scomparsa di quest’ultimo, con Salvatore Erittu. “Anche lui mi ha chiesto di aiutarlo con le nuove leve. Gli ho risposto che sarei rimasto per due anni ma dopo nove sono ancora qui”. Il palmarès di Gavino Mura è ricco di vittorie conseguite coi suoi ragazzi. Dagli otto titoli italiani con Bruno Licheri ai cinque di Alessandro Cubeddu, agli altri conseguiti da Alessandro Mazzacane, Alessandro Balloi, Luca Nurra, solo per citarne alcuni.
“Ho voluto essere un padre per loro che dice ‘bravo’ quando vincono ma non vende illusioni”. Forse però i successi più importanti sono quelli conseguiti salvando i giovani da derive pericolose. “Droga, furti…alcuni di loro si confidavano con me e ho cercato di aiutarli. I maggiorenni però sono stato costretto ad allontanarli”. C’è poi il lato tecnico, oltre quello umano, che lui cura con particolare attenzione: “La mia metodologia è come una scala da cinquanta gradini. Si deve partire dal primo tenendo in mente che il successo sul ring deriva per il 60 per cento dalle gambe e per il 40 dalle braccia. Punto di partenza è quindi la guardia, la difesa e i movimenti per non farsi mettere all’angolo”. Durante l’intervista è una continua processione di giovani e meno giovani che lo salutano con ammirazione mista all’affetto. “Sono tutti come dei figli per me. Alcuni di loro vengono a trovarmi coi propri bambini nel passeggino. E io sono contento anche se magari non hanno vinto niente perché vuol dire che ho dato loro un buon esempio come allenatore e come secondo padre”. Poi ritorna tra sacchi, punching-ball e ragazzi delle ultime generazioni che, appena vedono Gavino, gli dicono “Buonasera maestro”.