Il mio racconto da positivo al coronavirus.
L’incubo per me è iniziato la sera del 27 dicembre. Brividi di freddo, qualche linea di febbre e tosse. Il pensiero è quello dell’influenza, ma capisco presto che così non è. Perchè i sintomi peggiorano con il passare dei giorni, la temperatura sale e la debolezza impedisce qualsiasi movimento.
La chiamata alla guardia medica è rassicurante: “Non si preoccupi, prenda l’antibiotico e quando si sentirà meglio farà il tampone“. Ma nemmeno l’antibiotico e il mucolitico sortiscono effetti. Si arriva alla sera del 5 gennaio e va sempre peggio. Il termometro segna 39 gradi, la tosse è sempre più forte, la debolezza e i dolori al torace fanno il resto.
Chiamo il 118 e pochi minuti dopo arrivano gli operatori sanitari. Bardati da capo a piedi, mi misurano la saturazione. È buona, ma non basta. La temperatura è alta da giorni ed è meglio andare al pronto soccorso, dicono gli infermieri. Dalla sedia alla lettiga, si parte a sirene spiegate. Si arriva al Santissima Annunziata e viene effettuato il tampone. L’esito arriva poche ore dopo: sono positivo. Sembra l’inizio di un incubo e nella mente si affollano le domande. Ma non c’è tempo per riflettere, è il momento di fare la Tac. La diagnosi è quella di polmonite da Covid. Si predispone il ricovero nelle Cliniche Universitarie di San Pietro.
Il trasporto viene effettuato con un’altra ambulanza. Si arriva e iniziano le domande per la compilazione della cartella clinica. Il personale sanitario, con gentilezza e umanità, si alterna tra una stanza e l’altra. In stanza siamo in 2. Io ed un anziano con la maschera d’ossigeno. Da lì a qualche ora arrivano altri 2 anziani. Anche loro non necessitano del supporto respiratorio, si chiacchera e ci si scambia opinioni.
Nel frattempo il lavoro degli infermieri è senza sosta. Tolta una flebo se ne aggiunge un’altra. Ironizzo, ma il sorriso dura poco. Impossibilitato ad alzarmi gli operatori sociosanitari mi aiutano ad indossare il panno. Mi tranquillizzano sul fatto che servirà per pochi giorni, ma la pressione emotiva è fortissima. Intuiscono il disagio e si inizia a scherzare. Parole che in un momento così duro hanno il valore di una carezza. Un’azione che fa sentire il paziente una persona, non solo uno dei tanti da curare.
Arriva il momento del secondo tampone e l’esito è ancora una volta positivo. La sintomatologia regredisce, le condizioni migliorano e arriva il momento della dimissione. Ma a casa non posso rientrare, i miei familiari non hanno ancora fatto il test diagnostico. Si opta allora per il Covid-hotel di Santa Maria Coghinas. Arrivo accompagnato in ambulanza dai volontari della Croce Blu di Sassari. Lungo tutto il tragitto mi tengono compagnia.
Si arriva all’hotel e per qualche secondo lo sconforto cede il passo alla speranza. Ero isolato, sì, ma era fondamentale per non contagiare altri e soprattutto per guarire. La giornata iniziava con la colazione completa di un bel cornetto, poi la visita dei medici dell’Usca 5 e la misura della saturazione, sempre fissa a 99. Il momento peggiore è sempre quello del tampone. Ma il primo esito lascia ben sperare: positivo, ma con bassa carica virale.
Nel frattempo, da Sorso, giunge la notizia che anche i miei familiari sono positivi. Così avverto i medici che mi comunicano che posso rientrare a casa. L’amara verità: tra positivi non ci si può contagiare. La pioggia battente nel viaggio di ritorno quasi strideva con il mio stato d’animo. Ero stanco e debilitato, così come lo sono ora seppur in maniera minore, ma ero felice di rientrare a casa. Nella stessa mattinata avevo fatto il tampone e l’ansia era tutta per il nuovo esito. Ricevo la chiamata e finalmente ho la notizia della negativizzazione. La fine apparente di un incubo, che ancora oggi mi tormenta fisicamente.