La storia di un senegalese che vive a Sassari da 32 anni.
Un extracomunitario a Sassari intrappolato nel limbo della democrazia. Parliamo di un senegalese trasferitosi in città nel 1990 e da quasi tre anni oggetto di un decreto d’espulsione. Nessun precedente penale per lui, nemmeno una sanzione. Eppure “dal 2019 vivo come in un bunker – racconta – e da tempo non dormo più”.
La sua responsabilità è una soltanto: non aver dimostrato come si manteneva per vivere. Un’omissione che, per il venditore di accendini e altri oggetti per strada, nasce dall’aver accudito il fratello morente di cancro dimenticando tutto il resto. Un congiunto molto conosciuto in città e per anni gestore di uno stallo regolarmente registrato in piazza Pescheria. Ma le ragioni del cuore si infrangono sulle regole dello Stato che ha deciso di non rinnovargli il permesso di soggiorno.
“Mi hanno mandato al centro di prima accoglienza di Brindisi, sembrava una prigione”. Da lì poi il ritorno da clandestino a Sassari dove prova a sopravvivere nella paura costante di essere rispedito altrove nonostante l’interessamento di avvocati e rappresentanti della politica. Tutti solidali con il destino di quest’uomo benvoluto da tutti, generoso, capace di dare il poco cibo che gli rimane ai senzatetto “alloggiati” nei parcheggi interrati. O a mostrare un grande coraggio, a rischio della propria incolumità, quando ha difeso un rappresentante delle forze dell’ordine dall’aggressione di un altro extracomunitario. In città chi lo conosce mette la mano sul fuoco sulla sua bontà e sul suo altruismo. Eppure non basta: “Non so che fare: non mi fanno andare via ma nemmeno restare”.
In questo stato precario vive in un centro storico sempre più connotato da traffici e violenze: “Non voglio però parlare di quello che vedo, ho paura”. Ogni giorno spera nell’arrivo del sospirato foglio della questura che lo faccia divenire di nuovo da invisibile una persona in carne e ossa. “Se vogliono mandarmi via, lo accetterò. Rivedrò i miei otto figli e mia madre che ormai vive a letto”. Li mostra nelle foto del cellulare, memoria portatile di una famiglia lontana sostenuta coi magri guadagni del suo girovagare quotidiano. “Dirò ‘grazie Italia’ perché comunque mi ha dato tanto”. Ma dovrà dire addio a una città che per trent’anni lo ha accolto girandogli improvvisamente le spalle.