La telecronaca della Dinamo.
Il basket è battaglia. È guerra anche, oltre che fisica, di parole, nel perimetro, tra insulti articolati e sillabe decapitate di senso. D’altronde, provate voi a dire qualcosa di intelligente mentre volate a canestro e l’avversario vi si aggrappa ai calzoncini. Così ci pensano i cronisti a scrivere il romanzo dei match dall’hot spot della stampa come Erodoto parlava dell’invasione persiana da qualche rupe pre-lounge bar.
E l’altro giorno, nella disfida nordica-mediterranea, tra Dinamo e Bakken Bears, nel round 3 della Champions, è la voce off, very english, d’un giornalista molto excited a fare lo showtime. Ogni azione, ogni canestro si colora di epica, ingrossandosi negli spasmi di una laringe sotto stress test. Tutti sono “unstoppable” – immarcabili – da Tillman a Peterson fino all’addetto al gatorade. Volano gli “Oh baby” indirizzati alle manovre del Banco, quasi fossero uno stuolo di modelle Gucci con una palla a spicchi al posto di reggiseni trendy.
E giusto per mischiare il diavolo che veste Prada con l’acqua santa ecco evocato Lui – “Oh my Lord!”- che dal multischermo della consolle interplanetaria, tra emergenza covid e scarpe Lidl a 12.99- magari non è concentrato al 100% su Spissu & co. Ma proprio sul play sassarese si abbatte la frontiera dell’inglese: “Sì, signore!” commenta con enfasi il nostro dopo una tripla, surrogato forse del celebre intercalare genitale italico e turritano.
“Buonanoti” esclama poi quasi allo scadere, con i sardi ormai vittoriosi, aggiungendo con voce strozzata: “Are you serious?”, per la 300esima volta. Che tradotto suona più o meno: “Ci siete o ci fate? Mi lasciate a ululare da solo in Eurovisione?”. Perché, per un cronista, un cronista vero, il “game-over” non esiste.